Negli ultimi anni, il ruolo degli influencer è diventato sempre più rilevante nel plasmare opinioni, orientare comportamenti e influenzare la percezione pubblica dei fatti. Quando però l’attivismo si intreccia con la ricerca di visibilità a tutti i costi, può nascere un fenomeno pericoloso: la gogna mediatica, dove il sospetto diventa certezza e la condanna avviene prima delle indagini.
Un caso emblematico è rappresentato dall’azione sistematica di un noto influencer animalista, che negli ultimi mesi ha trasformato singole segnalazioni in campagne virali, mettendo nel mirino cittadini comuni. Questa modalità operativa, oltre a essere discutibile dal punto di vista etico, presenta caratteristiche criminologiche ben precise che meritano di essere analizzate.
La costruzione del “caso” mediatico
Il primo elemento ricorrente è la rapidità con cui l’influencer trasforma una segnalazione grezza, composta da video amatoriali, fotografie o racconti parziali, in un caso pubblico a tinte forti.
Questa dinamica segue spesso una sequenza precisa: ricezione della segnalazione, spesso non verificata in modo approfondito; diffusione immediata sui propri canali accompagnata da un linguaggio accusatorio e perentorio; etichettatura morale della persona coinvolta come “colpevole” o “mostro”; attivazione della community con like, commenti, condivisioni e reazioni emotive; eventuale presenza fisica nei luoghi per rafforzare la narrazione eroica di “giustiziere”.
Si tratta di una vera e propria messa in scena costruita in tempo reale, nella quale l’accuratezza delle informazioni passa in secondo piano rispetto all’effetto immediato sul pubblico.
Il meccanismo della gogna e l’uso del linguaggio polarizzante
Dal punto di vista comunicativo, l’influencer utilizza schemi fortemente polarizzanti. Divide la scena in due blocchi netti: da un lato sé stesso e i propri follower, i difensori assoluti degli animali; dall’altro, il “nemico”, rappresentato dalla persona colpita e descritta come crudele, violenta o indegna.
Questo schema “buoni contro cattivi” è estremamente funzionale a generare coinvolgimento. Più l’attacco è netto, più il pubblico reagisce, si schiera e partecipa emotivamente. Dal punto di vista criminologico della comunicazione, questo meccanismo corrisponde a una costruzione simbolica del colpevole, dove l’individuo viene trasformato in bersaglio collettivo, indipendentemente dalla verità dei fatti.
Il ruolo del pubblico: folla digitale e legittimazione sociale
L’influencer non agisce mai da solo. La sua forza deriva dalla folla digitale che attiva con ogni pubblicazione. Ogni post accusatorio genera centinaia, talvolta migliaia di commenti, messaggi d’odio, minacce e insulti. Questa massa amplifica il messaggio originale e trasforma una semplice accusa in una pena sociale extragiudiziale.
In criminologia della comunicazione questo fenomeno viene definito processo di stigmatizzazione collettiva: il bersaglio diventa “altro” rispetto alla comunità, perde la possibilità di difendersi e viene simbolicamente escluso.
Questo produce due effetti principali. Il primo è l’effetto deterrente: altri cittadini possono evitare di esporsi per timore di subire lo stesso trattamento. Il secondo è l’effetto intimidatorio: la persona colpita subisce una pressione enorme, spesso sproporzionata rispetto ai fatti reali.
L’assenza sistematica di verifica e contraddittorio
Uno degli elementi più gravi dal punto di vista etico e criminologico è la totale assenza di verifica preliminare.
L’influencer non attende l’esito delle indagini, non chiede spiegazioni ai diretti interessati, non confronta versioni differenti, non contesta i contenuti in modo critico ma li assume come verità immediata.
Questo tipo di condotta anticipa la funzione giudicante che dovrebbe appartenere alle autorità. Si crea così una giurisdizione parallela, quella dei social network, dove i criteri di prova vengono sostituiti dall’indignazione pubblica.
La spettacolarizzazione della “giustizia”
Altro tratto distintivo è la tendenza a spettacolarizzare la propria presenza fisica nei luoghi, ad esempio recandosi sotto casa dei soggetti coinvolti.
Questi gesti servono a rafforzare la propria immagine di “paladino” attivo sul campo, a innescare ulteriori dinamiche virali attraverso dirette e stories e a legittimarsi agli occhi della community come figura eroica, non solo mediatica ma “operativa”.
Dal punto di vista criminologico, questo comportamento rientra nella costruzione performativa del ruolo di vigilante: una figura che si appropria simbolicamente di funzioni di controllo sociale, senza avere competenze o mandato legale per farlo.
Pericolosità sociale di questa strategia comunicativa
Questo modus operandi presenta diversi profili di rischio. Il primo riguarda la possibilità di diffamazione e denunce incrociate, poiché il linguaggio utilizzato e la mancanza di prove solide possono configurare reati.
Vi sono poi danni reputazionali potenzialmente irreversibili per le persone colpite, che possono subire esclusione sociale, perdita di lavoro, isolamento o atti persecutori.
Si registra inoltre un’erosione della fiducia nelle istituzioni: il pubblico tende a seguire la “giustizia parallela” dei social anziché attendere l’esito delle autorità competenti.
Altro rischio è la radicalizzazione del pubblico: la community si abitua a una visione binaria e aggressiva, diventando essa stessa parte attiva nella persecuzione di individui.
Infine, vi sono effetti psicologici sulle vittime, che possono manifestare stress, ansia, paura e danni alla salute mentale anche gravi.
Conclusione: un potere comunicativo da non sottovalutare
L’analisi criminologica e comunicativa mostra chiaramente che il comportamento di questo influencer non è neutro né innocuo. Non si tratta semplicemente di opinioni forti o di attivismo acceso: è una forma strutturata di persecuzione mediatica, che sfrutta i meccanismi digitali per amplificare sospetti e trasformarli in condanne pubbliche.
In un contesto democratico, la libertà di espressione deve convivere con la responsabilità comunicativa. Quando un singolo individuo usa la propria popolarità per sostituirsi alla giustizia, creare polarizzazione e colpire persone comuni, la questione diventa etica, sociale e giuridica.
Riepilogo
Strumento utilizzato: social e linguaggio emotivo polarizzante
Obiettivo apparente: difesa degli animali
Effetto reale: gogna pubblica, danni reputazionali, giustizia parallela
Rischi principali: diffamazione, radicalizzazione, violenza simbolica e sociale.
Veronica Cucco



